Armiamoci e (ri)partite: incongruenze del decreto rilancio

La legislazione d’emergenza attende il suo ennesimo, e forse ultimo, capitolo: il decreto Rilancio, che dovrebbe consentire alle imprese di allontanarsi velocemente dalla lunga notte del lockdown.

Almeno due norme di ordine lavoristico, contenute nel decreto, mettono tuttavia in forte dubbio questa possibilità, imponendo gravi limitazioni alla libertà di impresa senza creare alcun vantaggio economico e competitivo evidente.

A mio giudizio le perplessità maggiori riguardano l’estensione sino al 17 agosto 2020 del divieto di procedere a licenziamenti individuali per motivo economico e di attivare (o continuare) procedure finalizzate alla riduzione della forza lavoro.

La novità rilevante in questo caso non risiede nel divieto, che già esiste da marzo, quanto nella decisione di estenderlo di altri 90 giorni all’interno di un progetto normativo che dovrebbe essere finalizzato al rilancio dell’attività di impresa.

Il dubbio maggiore riguarda l’ingerenza nella libertà di impresa, ma vi sono perplessità anche sul fatto che il divieto possa produrre reali vantaggi di medio e lungo periodo.

La facoltà di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro per motivo economico rinviene direttamente dalla libertà di iniziativa economica, tutelata dalla Costituzione. Tale libertà si manifesta infatti anche nella facoltà dell’imprenditore di determinare l’assetto ritenuto migliore per la sua impresa, soprattutto nei periodi di andamento economico non favorevole.

È dunque discutibile che il divieto di licenziamenti economici, introdotto in una fase di estrema emergenza, debba continuare a operare anche oggi e in prospettiva nei mesi forse più delicati del “rilancio” della nostra economia.

 La facoltà di recedere per motivo economico dai rapporti di lavoro è del resto già delineata e circoscritta dalle norme limitative dei licenziamenti individuali che assicurano, anche grazie a decenni di giurisprudenza, un corretto bilanciamento dei diritti e degli interessi coinvolti. Introdurre e confermare per decreto un divieto tout court, la cui violazione determinerebbe la nullità radicale dell’atto risolutivo, pare una misura in effetti non commisurata al periodo che rischia di esporre la norma a rilievi di costituzionalità, anche per il fatto di non aver incluso la categoria dei dirigenti, e che certamente non merita di essere inserita in un decreto che viene intitolato “Rilancio”.

Questa misura, del resto, vale a far ricadere sulle imprese tutto il peso, anzitutto economico, della garanzia occupazionale offerta per decreto. Invero il divieto di licenziamento ha un’estensione temporale superiore a quella dei trattamenti di integrazione salariale, che possono essere applicati per un massimo di 14 settimane. Verrà così a crearsi una zona d’ombra, all’interno della quale l’azienda non potrà ricorrere alle misure di sostegno del reddito dei lavoratori e neppure potrà disporre della facoltà di risolvere il rapporto di lavoro che risulterà eccentrico sotto il profilo organizzativo nonché economicamente non giustificabile.

Una domanda dunque sorge spontanea: cosa accadrà terminata la cassa integrazione e dopo cinque mesi di divieto assoluto di licenziamento economico? La risposta è forse intuibile già da oggi, così come pare chiaro che il governo abbia deciso la proroga del divieto di licenziamento, anteponendo le utilità di breve periodo per i lavoratori a valutazioni strutturali e di più ampia prospettiva temporale.

In assoluto, dunque, il decreto non attiva una misura eccellente per il rilancio. 

Alla medesima conclusione si iscrive anche l’art. 90 del Decreto, che assegna ai lavoratori dipendenti, genitori di figlio minore di 14 anni, il diritto di svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile semplificata (anche senza accordo individuale) sino alla cessazione dello stato di emergenza e alla sola condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.

La preoccupazione maggiore che la norma suscita è molto semplice ed è stata già evidenziata da alcuni commentatori: parrebbe infatti che essa rimetta la scelta e la valutazione di ricorrere allo smart working integralmente al lavoratore, relegando il datore in una posizione di secondo piano nella organizzazione delle sue prestazioni lavorative.

Attendiamo ovviamente smentite, ma se una simile lettura fosse confermata il decreto Rilancio avrebbe introdotto una limitazione ancor più profonda e ingiustificabile alle prerogative costituzionali del datore, che solamente lui può esercitare nella organizzazione della propria impresa.

Non è dato sapere per quale motivo, in tale ipotesi, il datore di lavoro dovrebbe prendere atto delle valutazioni discrezionali e di convenienza, effettuate per lui dal lavoratore. Non sarebbe inoltre comprensibile per il datore di lavoro dovrebbe assumere specifiche responsabilità derivanti da scelte che egli non ha neppure concorso a determinare. Anche in questo caso è difficile conciliare il contenuto della norma con il concetto di rilancio e sarebbe auspicabile una revisione letterale.

La legislazione emergenziale ha in buona parte esaurito il proprio compito ed è giunto il momento di ripartire davvero e di farlo anzitutto con riforme, anche strutturali, dei contratti e dei modelli di lavoro. Riforme che meritano di essere approvate nella forma della legge e che tengano conto di tutti gli interessi di volta in volta coinvolti, evitando così di risolvere un problema creandone molti altri.