In diverse occasioni ci siamo occupati degli scenari fortemente innovativi del mondo del lavoro nella Quarta era Industriale.
Oggi vorremmo parlarvi di alcuni fenomeni refrattari a questa evoluzione. Ci riferiamo in particolare alla segregazione occupazionale e alla discriminazione salariale, che condizionano molte volte la vita delle donne nel mondo del lavoro.
Le statistiche, sfortunatamente, continuano a consegnarci fotografie non sempre incoraggianti di questi fenomeni. Le donne, troppo di frequente, lavorano ancora confinate in una gamma di attività più ristretta e di livello inferiore a quelle affidate agli uomini. Questo fenomeno, in genere definito segregazione occupazionale, è il veicolo di un altro, non meno rilevante: la discriminazione salariale.
A parità di funzioni, una donna guadagna una somma inferiore al suo omologo maschile. In Europa, solo per fare un esempio, negli ultimi cinque anni le donne hanno guadagnato in media il 16% in meno rispetto ai colleghi maschi. In Italia, considerando unicamente il dato relativo alla differenza tra le retribuzioni lorde orarie, la differenza salariale uomo-donna secondo i dati forniti da Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) corrisponde al 5,6 per cento. Purtroppo però, se si considera una platea più ampia di indici – che comprende il numero delle ore complessivamente retribuite, comparato all’analisi dei settori con occupazione femminile prevalente (e retribuzioni inferiori) e quelli a occupazione maschile maggioritaria – il gap è destinato ad aumentare esponenzialmente sino al 43,7 per cento (una mappa esemplificativa per il nostro continente è consultabile qui).
Il problema affonda le proprie radici in un pregiudizio che accompagna, almeno da alcuni secoli, la figura femminile. Un malfondato preconcetto nei confronti della donna, che viene (a torto) considerata un membro meno produttivo della società. Persiste poi, in molti casi, l’atavica (e francamente ridicola) idiosincrasia del maschio alfa a riconoscere alla donna la possibilità di ricoprire un ruolo lavorativo di livello, magari più elevato del suo.
A prescindere dalla analisi sociologica del fenomeno che ha riempito intere collane di studi, da tempo le istituzioni, soprattutto europee, hanno compreso che la disuguaglianza di genere che colpisce le donne (e non solo) nel mondo del lavoro costituisce un pilastro sociale inattuato, una questione economica rilevante per l’intera collettività.
Ieri, 3 febbraio 2020, è scaduto l’invito che la Presidentessa della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha rivolto al mondo dell’imprenditoria e delle professioni, chiedendo di formulare osservazioni e proposte su questo tema, da considerare nelle future azioni normative dell’Unione.
L’impostazione è certamente condivisibile, ma personalmente ritengo che questo progetto dovrà concentrare lo sforzo maggiore nel tentativo di cambiare il rapporto tra il mondo del lavoro e la donna.
Si tratta certamente di un problema vasto e profondo, che presenta legami anche con temi molto delicati come la violenza familiare sulle donne. Non intendo dunque neppure adombrare una possibile soluzione, quanto confermare che si tratta di una questione che necessita della concentrazione di sforzi legislativi, culturali e imprenditoriali.
Certamente la discriminazione salariale deve essere considerata sotto il profilo economico generale.
Investire sulle retribuzioni delle donne, sulla loro affermazione e il loro benessere, creando condizioni affinché possano sempre più partecipare alla direzione delle piccole e delle grandi aziende, è un fattore moltiplicatore di benessere e ricchezza per tutti, uomini compresi. Questa è l’opinione del World Economic Forum, che ha pubblicato un proprio studio, consultabile on line al sito weforum.org, dal quale emerge che il nostro Paese è posizionato all’interno di Paesi più virtuosi per quanto riguarda la percentuale di donne che compongono i Consigli di amministrazione delle società (34%), non facendo parte tuttavia della top 10 della nazioni con il minor gender gap, guidata dall’Islanda e nella quale la Germania è decima.
In conclusione ritengo che il gender pay gap non costituisca un problema da gestire unicamente in termini costi/benefici, ma rappresenti una vera e propria necessità: dobbiamo far evolvere anche sotto questo profilo il mondo del lavoro, riconoscendo alle donne l’indiscutibile apporto professionale che molte di loro già esercitano in molte aziende e istituzioni.
Diversamente non potremo parlare veramente di Quarta era Industriale.