Stalking occupazionale, brevi appunti

Le condotte lesive dell’integrità psico-fisica del lavoratore registrano un continuo aumento ed una costante “evoluzione”, se così si può definire.

Sino allo scorso decennio gli episodi di conflittualità e molestie all’interno dell’azienda nascevano prevalentemente per ragioni lavorative e rimanevano confinate all’interno dell’orario di lavoro e dei locali aziendali.

Oggi, con sempre maggior frequenza, assistiamo invece a casi di molestie e atti persecutori che nascono sì in ambito lavorativo, ma che si trasferiscono il più delle volte nella sfera privata dei singoli individui. Il mezzo che favorisce questo passaggio dal pubblico al privato è spesso quello tecnologico e i motivi attengono nella maggioranza dei casi alla sfera sessuale.

Questa “evoluzione” ha determinato un adeguamento dottrinale, cui è seguito un ampliamento delle fattispecie lesive e delle forme di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, elaborate dalla giurisprudenza. Tra queste nuove figure, a mio avviso, merita attenzione il c.d. stalking occupazionale: una figura già nota alla giurisprudenza penale, che trova sempre maggior risalto anche in ambito lavoristico.

Lo stalking occupazionale è una figura che molti commentatori definiscono ibrida, nel senso che mutua le proprie caratteristiche da tre fattispecie: il mobbing, lo straining e lo stalking.

Come è noto il mobbing ricorre in ogni occasione in cui, all’interno del luogo di lavoro, venga creata una situazione di conflittualità sistematica ai danni di un lavoratore, che diviene il destinatario di una pluralità di condotte ostili e persecutorie di diversa natura, perpetrate per un apprezzabile lasso di tempo e con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità alla condizione personale e lavorativa.

Questa figura si distingue certamente per il fatto di nascere ed esaurirsi in ambito lavorativo e avere potenzialità gravi sulla condizione del lavoratore a causa della sistematicità, pluralità e continuazione delle condotte lesive.

Distinguiamo così lo straining, che si verifica, invece, allorquando siano perpetrati in danno di un lavoratore comportamenti, anche non sistematici e a volte solo episodici, caratterizzati però da una intensità costante e dalla intenzionalità di ledere la persona. La fattispecie è caratterizzata dalla volontà di indurre un ingiustificato stato di stress e procurare, così, un effetto peggiorativo della condizione lavorativa e personale, che possono avere ripercussioni sullo stato di salute del singolo.

Lo stalking, in ultimo, è una condotta lesiva di matrice certamente extra-lavorativa, che consiste in reiterati comportamenti di matrice persecutoria – minacce, molestie, atti lesivi in genere – tutti accomunati dall’effetto di indurre nella vittima un disagio psichico e fisico, nonché un ragionevole senso di timore, che la inducono a una modificazione delle abitudini di vita.

Lo stalking occupazionale, come detto, somma al proprio interno alcuni tratti caratteristici di tutte e tre le condotte appena descritte: è un comportamento certamente vessatorio e stressogeno che nasce in ambito lavorativo, con diverse intensità, e che per ragioni diverse si espande sino alla sfera privata della vittima, influenzandone negativamente la condizione, la tranquillità, le abitudini e, non ultima, la condizione psico-fisica.

Si registrano in questo senso, ad esempio, episodi di molestie, soprattutto a carattere sessuale, che iniziano all’interno dell’orario di lavoro e che esondano, progressivamente, in ogni momento di vita della vittima.

È utile dunque domandarsi se e quando, in queste ipotesi, il datore di lavoro possa essere ritenuto responsabile.

Recenti commenti, infatti, evidenziano come il tema sia tutt’altro che neutro per l’azienda. È evidente infatti che, seppur si tratti di comportamenti imputabili alla responsabilità personale (civile e penale) del loro autore, nondimeno l’azienda è tenuta al rispetto della generale norma di chiusura contenuta nell’art. 2087 cod. civ., che le impone di adottare ogni misura in concreto idonea a proteggere l’integrità psico-fisica del lavoratore (e della lavoratrice ovviamente) all’interno dell’azienda. Il che espone sempre l’azienda a essere giudicata per tutto quanto abbia fatto e predisposto in reazione ai comportamenti lesivi, ma anche a prevenzione degli stessi.

Con questi presupposti, i casi in cui i Tribunali del lavoro sono stati chiamati a pronunciarsi evidenziano che l’azienda è suscettibile di pretese risarcitorie dirette, provenienti dalla vittima delle molestie, nel caso in cui, avendo conoscenza della vicenda, ometta di adottare tutte le misure di contrasto utili a far cessare le condotte vessatorie.

In questo senso, non bisogna dimenticare che si tratta pur sempre di comportamenti commessi da un dipendente e che trovano la loro genesi, nonché l’occasione, nel rapporto di lavoro. Non è dunque ipotizzabile escludere aprioristicamente la valutazione della condotta aziendale.

La responsabilità per omessa adozione degli obblighi di protezione, infatti, ha natura contrattuale e portata oggettiva, poiché proviene da un obbligo di tutela previsto dalla legge che integra in ogni caso il contenuto del contratto di lavoro, imponendo al datore la prova di aver adottato ogni misura utile, secondo tecnica e conoscenza, ad adempiere all’obbligo contrattuale di protezione e a evitare il danno. La responsabilità civile e penale dell’autore non oblitera dunque la concorrente responsabilità del datore di lavoro.

La casista insegna che particolare attenzione deve essere posta nel disporre, ad esempio, trasferimenti della vittima delle molestie che possano essere interpretati come ritorsivi o comunque punitivi, ovvero disposti senza che vengano adottate misure di accertamento e contrasto delle condotte denunciate. Recenti sentenze, infatti, che pure si sono occupate del tema stalking occupazionale, hanno considerato simili trasferimenti come veri e propri atti illeciti di carattere ritorsivo.

Certamente l’adozione di valide procedure di whistleblowing, di codici etici e modelli comportamentali, nonché l’avvio di ogni iniziativa, anche disciplinare, rivolta ad accertare le responsabilità e tutelare la vittima di molestie costituiscono fattori di limitazione, e financo di esclusione, della responsabilità aziendale. Segnalo, in ultimo, che il D.Lgs. 198/2006 sanziona con la nullità i patti, gli atti e i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei soggetti vittima di molestie, qualora vengano adottati in conseguenza del rifiuto e/o della sottomissione a tali molestie.