E se fosse l’azienda a utilizzare l’app per il tracing?

A breve decollerà la c.d. fase 2 e le aziende saranno chiamate al non semplice compito di attuare nuove misure organizzative per fronteggiare il diffondersi del Covid-19 post lockdown.

Dal 4 maggio si aprirà un periodo di media-lunga durata, nel corso del quale le aziende potrebbero cogliere l’opportunità di rispettare le indicazioni governative (e regionali) per ridisegnare spazio fisico, modalità e tempi di lavoro in maniera funzionale alle loro esigenze produttive. Potrebbe essere questa l’occasione per progettare profili di sicurezza su misura e by design, per mutuare un’espressione in voga nel trattamento dei dati personali.

A prescindere da questa mia considerazione, è chiaro che distanziamento sociale e rilevazione della temperatura continueranno a essere ancora per molto tempo requisiti basilari per l’accesso ai luoghi di lavoro; questa seconda fase impone tuttavia di aggiungerne di nuovi, quali, ad esempio, la revisione della disposizione delle postazioni di lavoro degli uffici o, ancora, l’allungamento delle fasce di inizio e fine dell’orario lavorativo (ove possibile) e la creazione di percorsi unidirezionali di ingresso e uscita dall’azienda.

Non è escluso inoltre che le aziende possano implementare l’utilizzo di specifiche app, da installare su smartphone e altri dispositivi aziendali, per il tracciamento degli spostamenti all’interno dei luoghi di lavoro finalizzato a verificare il rispetto del distanziamento tra le persone e del divieto di creare assembramenti.

Si tratterebbe indubbiamente di una misura efficace, che dimostrerebbe peraltro un atteggiamento ancor più rigoroso e proattivo dell’azienda nella tutela della integrità psico-fisica del lavoratore nell’ambiente di lavoro: un dovere che rinviene, ancor prima che dai recenti decreti, dall’art. 2087 del Codice civile.

È certo però che questa scelta imporrebbe alcune riflessioni sul piano giuslavoristico e della privacy, potendo effettivamente determinare sia una potenziale forma di controllo da remoto della prestazione lavorativa, che un trattamento aggiuntivo dei dati (sanitari) dei lavoratori.

Queste riflessioni dipenderebbero, in realtà, dal profilo informatico dell’applicazione adottata dall’azienda: a una maggiore capacità di controllo da parte dell’applicativo dovrebbe infatti seguire una più intensa regolamentazione del suo utilizzo.

Vediamo in quali termini.

In primo luogo, l’app di tracciamento potrebbe essere utilizzata unicamente per la localizzazione degli utenti all’interno dell’azienda e senza alcuna possibilità di identificare alcuno di essi.

A mio avviso in questo caso non sorgerebbero particolari problematiche giuslavoristiche o in ambito privacy.

Sarebbe necessario tuttavia che il software fosse in grado di garantire una perfetta anonimizzazione del dato, impedendo dunque all’amministratore (azienda detentrice della licenza o società titolare dell’app) di ricostruire l’identità dei singoli utenti rilevati, neppure mediante l’associazione del numero seriale del singolo dispositivo alla persona cui è affidato. In questo caso, infatti, l’applicativo limiterebbe le proprie funzionalità alla mera segnalazione delle violazioni del distanziamento di sicurezza tra gli utenti e del crearsi di assembramenti, nessun lavoratore verrebbe tuttavia identificato.

L’app di tracciamento potrebbe tuttavia avere un profilo informatico diverso e rendere possibile un grado maggiore di controllo, consistente nella localizzazione degli utenti all’interno dei locali aziendali e nella associazione di ciascuno di essi a uno specifico lavoratore.

In questo caso, rilevato un caso di positività, l’azienda sarebbe in grado di ricostruire gli ultimi movimenti in azienda del lavoratore contagiato e determinare la c.d. catena di contatto, assumendo le necessarie determinazioni.

L’identificazione del singolo potrebbe essere palese, ovvero essere realizzata mediante informazioni pseudonimizzate, ossia dati resi anonimi e tuttavia correlabili in un secondo momento a informazioni aggiuntive, conservate in banche dati separate, in modo da identificare un singolo individuo.

Certamente si tratterebbe di una profilazione efficiente, che meriterebbe tuttavia necessarie protezioni legali, in entrambi gli ambiti che sto considerando.

È evidente che in tale ipotesi l’app di tracciamento determinerebbe un vero e proprio trattamento di dati personali (per di più sanitari) e imporrebbe dunque una specifica informativa, con la quale indicare al lavoratore i limiti, anche temporali, di utilizzo e conservazione dei dati rilevati.

Questo trattamento dovrebbe essere adeguatamente progettato e l’azienda dovrebbe dotarsi di idonee procedure e supporti documentali, costituendo un vero e proprio trattamento aggiuntivo di dati personali, gestiti dall’azienda in esecuzione del contratto di lavoro.

A mio avviso tale ulteriore utilizzo dei dati dovrebbe essere limitato alle operazioni strettamente necessarie a garantire la sicurezza dei colleghi del soggetto rilevato positivo ed entrati nella sua catena di contatto, e a raggiungere lo scopo della tutela della salute. Dovrebbe dunque essere garantita l’esclusione di qualsiasi operazione non strettamente necessaria a raggiungere questo scopo; ciò anche con riferimento al tempo di conservazione dei dati, limitato allo strettamente necessario.

Sotto il profilo giuslavoristico, invece, una simile interazione di informazioni personali determinerebbe la possibilità del controllo a distanza della prestazione e richiederebbe, dunque, l’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, vincolando l’azienda alla procedura di intesa sindacale o autorizzazione amministrativa. L’azienda dovrebbe illustrare alla parte sindacale, o all’ispettorato, il funzionamento dell’applicazione, fornendo anche ogni documentazione utile a dimostrarne il funzionamento sotto il profilo informatico.

Una riflessione conclusiva: l’adozione dell’app di tracciamento potrebbe determinare per le aziende interessate un ulteriore adempimento che mal potrebbe conciliarsi con il particolare momento. Anche sotto questo profilo le aziende avrebbero necessità di procedere in tempi rapidi con soluzioni di immediato impatto, alleggerite da qualsiasi peso burocratico.

È altrettanto innegabile per quanto detto che l’adozione di app di tracciamento potrebbe incidere su diritti e situazioni rilevanti e meritevoli di tutela.

Credo sia indispensabile che argomenti come questi vengano considerati in uno dei molti tavoli oggi impegnati nella progettazione della fase 2, per consentire alle aziende e ai lavoratori di ripartire in piena sicurezza.

L’impugnazione del licenziamento del dirigente può essere svincolata dal regime di decadenza ordinario

Con le recentissime sentenze nn. 148 e 395 dell’8 e del 13 gennaio 2020 la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’applicabilità al rapporto di lavoro dirigenziale del regime di impugnazione del licenziamento, previsto dall’art. 6 L. 604/1966, come modificato dall’art. 32, commi 1 e 2, della Legge (Collegato Lavoro).

È utile una premessa sul quadro normativo di riferimento, che pure è stato considerato dalla Corte nelle citate sentenze. L’art. 32 del Collegato lavoro ha riscritto il testo dell’art. 6 L. 604/1966, che sottoponeva l’impugnazione del licenziamento di operari ed impiegati ad un unico termine di impugnazione stragiudiziale di 60 giorni.  La versione dell’art. 6 riformulata dal Collegato Lavoro prevede un sistema bifasico: una impugnazione stragiudiziale, da comunicare al datore entro 60 giorni dall’irrogazione del licenziamento, cui deve seguire, a pena di inefficacia dell’impugnazione medesima, il deposito in sede giudiziale del ricorso entro il successivo termine (ad oggi) di 180 giorni.

Il secondo comma dell’art. 32 del Collegato Lavoro ha previsto inoltre che le disposizioni del novellato art. 6 L. 604/1966 si applichino anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento.

La Legge n. 92/2012 (Legge Fornero) da ultimo ha esteso, per la prima volta, alla categoria dei dirigenti le tutele previste dall’art. 18, comma 1, dello Statuto dei Lavoratori per i casi di nullità del licenziamento ivi previsti.

L’estensione del regime previsto dall’art. 6 L. 604/1966 a tutti i casi di invalidità del licenziamento ha creato contrastanti interpretazioni con riferimento alla categoria dei dirigenti.

Il dubbio interpretativo è sorto proprio dalla formulazione utilizzata dall’art. 32, comma 2, del Collegato Lavoro – tutti i casi di invalidità del licenziamento – che ha fatto ritenere a taluni che il regime disegnato dall’art. 6 L. 604/1966 interessasse anche i dirigenti; ciò sebbene sia noto che l’art. 10 della stessa L. 604/1966 non indichi questa categoria tra quelle destinatarie delle norme limitative dei licenziamenti individuali.

Con le recentissime sentenze di inizio anno la Cassazione ha sciolto il dubbio interpretativo, ribadendo l’orientamento già espresso con la sentenza n. 22627/2015.

Il Collegio ha concluso che l’impugnazione dei licenziamenti dei dirigenti sia sottoposta a un diversificato regime di impugnazione (e di decadenza).

Secondo la Corte è necessario isolare le ipotesi in cui il dirigente contesti l’invalidità del licenziamento al fine di demolire l’atto risolutivo (e i suoi effetti) e invocare, dunque, le tutele previste dall’art. 18 comma 1 dello Statuto dei Lavoratori, in primis la reintegrazione.

Secondo il Collegio il concetto di invalidità richiamato dall’art. 32 comma 2 del Collegato Lavoro deve essere interpretato in senso restrittivo e riferito, dunque, a tutti i casi in cui il lavoratore contesti l’inidoneità del licenziamento a spiegare gli effetti che l’ordinamento gli riconosce a causa della sua contrarietà a norme imperative di Legge (o per il carattere discriminatorio o ritorsivo, ad esempio).

In simili ipotesi, a giudizio del Collegio, l’impugnazione rientra, anche nel caso dei dirigenti, all’interno della locuzione utilizzata dall’art. 32, secondo comma, del Collegato Lavoro ed è quindi sottoposta al regime ordinario di impugnazione (e decadenza) previsto dall’art. 6 L. 604/1966. Il dirigente è onerato pertanto dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento nel termine di 60 giorni dalla sua comunicazione e alla successiva impugnazione giudiziale nel successivo termine di 180 giorni.

La Corte è giunta invece a una diversa conclusione con riferimento alle ipotesi in cui il dirigente non contesti l’invalidità del licenziamento, concentrando invece la sua impugnazione sulla mancanza di giustificatezza dell’atto risolutivo chiedendo il risarcimento del danno nella forma della indennità supplementare, prevista dal CCNL applicabile.

Il Collegio ritiene infatti che, in nessun caso, il licenziamento privo di giustificatezza possa essere qualificato come invalido nel senso anzidetto.

L’assenza della giustificatezza costituisce per il Collegio un illecito convenzionale risalente dalla violazione delle norme del Contratto Collettivo e pure sanzionato secondo modalità che lo stesso Contratto stabilisce.

Non sussistendo dunque una contestazione di invalidità nel senso opinato dalla Corte, l’impugnazione del licenziamento non sarebbe soggetta al regime di impugnazione del licenziamento, regolata dall’art. 6 L. 604/1966 come modificato dall’art. 32 L. 183/2010.

Il regime di decadenza, infatti, deve essere considerato di stretta interpretazione e dunque non suscettibile di applicazioni estensive.