Mobbing e responsabilità datoriale

Le offese e le vessazioni subite da un collega di lavoro possono integrare il reato di mobbing e del conseguente risarcimento del danno deve rispondere direttamente il datore di lavoro, per il fatto di non essere stato in grado di garantire la serenità del dipendente offeso.

Questo, in sintesi, il principio espresso dalla recente sentenza della Corte di Cassazione n. 27913 del 4 dicembre 2020, che ha dato nuovamente applicazione ai consolidati precedenti in materia.

Il Supremo Collegio ha ribadito che l’art. 2087 del Codice civile, quale norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di adottare ogni comportamento e accorgimento utile a preservare l’integrità psico-fisica dei dipendenti in azienda, anche nei confronti di eventi non strettamente correlati all’esecuzione del rapporto di lavoro.

Nel caso di specie, il Collegio ha inoltre valorizzato il principio del neminem laedere, sancito dall’art. 2043 del Codice civile, per specificare che la sua violazione può derivare anche da comportamenti di carattere omissivo e in particolare dall’inosservanza del dovere giuridico di impedire un evento, che sia previsto da una clausola contrattuale o da una norma di legge (nel caso deciso l’art. 2087 cod. civ.).

Per queste ragioni, nella fattispecie giudicata la Corte ha rinvenuto una responsabilità in capo all’azienda per il fatto di non aver fatto cessare comportamenti tra colleghi di cui era a conoscenza.

Il tema del mobbing, a lungo dibattuto in dottrina e in giurisprudenza, merita costante attenzione in ambito aziendale, anche per evitare contestazioni di responsabilità, sicuramente evitabili utilizzando la dovuta diligenza.

Qui il link per scaricare la sentenza.

La proroga del divieto di licenziamento non lascia vie di uscita

Giocoforza torniamo a parlare del divieto di licenziamento per motivo economico, che l’art. 12 del Decreto-legge n. 137/2020 ha esteso sino al 31 gennaio 2021 (ma, a quanto pare, seguirà un ulteriore rinvio alla fine di marzo 2021).

Lo facciamo perché il Governo continua a imperniare la propria azione su una politica assistenzialista tout court, basata sullo scambio tra cassa integrazione (o esonero contributivo) e divieto di licenziare. Attività, queste, preferite a qualsiasi intervento minimamente proiettato sugli scenari futuri e di rilancio delle nostre attività produttive e del mercato del lavoro.

È indubbio che nella fase iniziale della pandemia la limitazione alla facoltà di licenziare abbia creato sicuri vantaggi sociali. In questo senso si era rivelato più che fondata il patto sociale tra aziende e Stato, all’interno del quale le prime avrebbero accettato il trade off tra cassa integrazione e divieto di licenziamento per limitare i propri danni economici e salvaguardare i livelli occupazionali.

Oggi questa politica ha però definitivamente segnato il passo.

Il nostro sistema vive da mesi uno stato di coma economico e occupazionale, rispetto al quale l’estensione del divieto di licenziamento agisce sulla base di una visione a brevissimo temine del problema a tutto detrimento di prospettive di futura stabilità e senza alcuna aspirazione di incidere in maniera strutturale.

Continuare ad anteporre il reddito oggi alla creazione di politiche e di posti di lavoro per il domani sconta un evidente disinteresse sugli scenari post pandemici e non è una scelta portatrice di utilità durature.

Non lo è per le imprese, che dovranno continuare a operare sulla gestione corrente delle problematiche Covid abbandonando ancora per diversi mesi ogni processo di riorganizzazione e ristrutturazione del proprio business in vista della uscita dalla pandemia.

Non lo è per il mercato del lavoro, che, anche a causa dell’enorme ingolfamento dei licenziamenti per motivo economico alla fine del divieto, risulterà ancora più stagnante senza l’introduzione di politiche attive in grado di migliorarlo.

Non lo è, dunque, per chi il posto di lavoro lo aveva perso prima del divieto e si troverà di fronte a difficoltà ancora maggiori di reinserimento in aziende, le quali anteporranno la ristrutturazione ai nuovi ingressi.

E ovviamente non lo è neppure per i lavoratori, i quali non sono stati ancora posti di fronte al fatto, ahinoi compiuto, che in molti casi si trovano a operare in aziende che non hanno più un posto di lavoro per loro e che prima o poi, ineluttabilmente, dovranno portare avanti un processo di ristrutturazione volto alla loro sopravvivenza.

Da qualsiasi angolazione si guardi il mercato del lavoro, dunque, l’intervento proattivo sulle condizioni del mercato che verrà sarebbe sicuramente prioritario all’estensione del divieto di licenziamento, il quale garantisce ai lavoratori solamente una tutela effimera, di fatto privandoli di prospettive concrete nel medio termine.

I processi di uscita ed entrata nel mondo del lavoro (tranne rare eccezioni) sono spenti da otto mesi; riavviarli richiederà grande competenza, progettualità e una adeguata dose di tempo. Aver allungato ancora una volta il divieto di licenziamento renderà tutto ciò ancora più lungo e macchinoso, nonché foriero, probabilmente, della politica dell’emergenza che oggi non è più sensato continuare.

Famiglia e scuola, oltre il Decreto Rilancio

Il Decreto Rilancio ha ratificato la possibilità per le aziende di disporre dello smart working in modalità c.d. semplificata e ha permesso ai datori di lavoro di disporre più agevolmente e velocemente di questo strumento senza dover ricorrere alla stipula di accordi individuali con i lavoratori.

Sino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-19, che allo stato parrebbe essere individuata al 15 ottobre 2020, le norme consentono al datore di continuare l’utilizzo unilaterale e senza particolari formalismi di tale strumento.

Sino a tale data quindi, i lavoratori potranno mantenere il diritto a lavorare in modalità agevolata svolgendo la propria attività lavorativa da remoto. Tale possibilità, tuttavia, viene riservata a molti, ma non a tutti: il decreto rilancio ha stabilito che il diritto al lavoro da remoto per i genitori/lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori di 14 anni, terminasse il 14 settembre 2020, proprio in concomitanza con la ripresa delle attività scolastiche.

La norma, tuttavia, non chiariva se i lavoratori/genitori avrebbero potuto pretendere di lavorare da remoto anche successivamente a tale data.

A offrire una risposta sul punto è intervenuto il recentissimo d.l. 111/2020 dell’8 settembre 2020, che introduce diverse soluzioni in favore delle le famiglie.

E infatti, l’articolo 5 comma 1 del decreto in oggetto stabilisce che, fino al 31 dicembre 2020, in caso di contagio del figlio minore di 14 anni, i genitori/lavoratori potranno tornare al regime del lavoro agile per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio convivente.

Un’altra soluzione è offerta dal comma 2, con l’opportunità del congedo parentale straordinario laddove la natura dell’attività lavorativa non sia compatibile con il lavoro agile: questo beneficio potrà essere richiesto, alternativamente dai due genitori, per tutto o parte del periodo corrispondente alla durata della quarantena del figlio, anche ad ore.

E in questo caso il legislatore ha riconosciuto al genitore/lavoratore la possibilità di percepire un’indennità corrispondente al 50% della sua retribuzione, calcolata secondo i criteri previsti per il congedo di maternità.

Lo smart working si conferma, quindi, ancora una volta come uno strumento di armonizzazione delle esigenze aziendali, da un lato, e di quelle dei lavoratori, dall’altro.

Una norma sfavorevole è il male minore rispetto ad una norma incerta: l’articolo 14 del Decreto Rilancio

A distanza di oltre tre settimane dalla pubblicazione, l’articolo 14 del Decreto Rilancio continua a essere oggetto di un inteso dibattito dottrinale.

La proroga del divieto di licenziamento per motivo economico sconta infatti una formulazione tutt’altro che felice che ha innescato dubbi, perplessità e interpretazioni contrastanti.

Il divieto, infaatti, opererebbe secondo un nuovo meccanismo che individua specifiche deroghe e che per il resto agirebbe – il condizionale è d’obbligo – armonicamente alle scelte dell’imprenditore in relazione alla prosecuzione della Cassa Covid e all’utilizzo (alternativo) dell’esonero contributivo introdotto dal nuovo decreto.

Nei casi in cui l’azienda decida di ricorrere a uno di questi due strumenti il divieto estende la propria ultrattività per tutta la durata della Cassa o dell’esonero; su questo aspetto il decreto non pare faccia sorgere particolari dubbi.

Le nuove norme, tuttavia, non chiariscono affatto un aspetto fondamentale della disciplina, ovvero se il divieto operi anche nel caso in cui l’azienda decida di non ricorrere ad alcuno degli strumenti di sostegno appena menzionati.

Non è chiaro, in particolare, se in queste ipotesi l’imprenditore sia comunque tenuto al rispetto del regime vincolistico speciale dei licenziamenti o se la decisione di affrancarsi dal sostegno statale lo renda libero dal divieto e, dunque, consenta di recedere per motivo economico dai rapporti di lavoro (nel rispetto, comunque, delle norme e dei principi generali del nostro ordinamento).

La questione non è di poco momento ed è destinata a creare impasse.

Il nodo interpretativo, in particolare, risiede nella lettura dei primi due commi dell’articolo 14, che precludono l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo previste dalla L. n. 223/1991 e la possibilità di recedere per motivo oggettivo dal contratto di lavoro “[A]i datori che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da Covid-19 […] ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 del presente decreto”.

La formulazione, come detto, ha acceso due contrastanti interpretazioni.

Da un lato, invero, è stato ipotizzato che vi sarebbe una strettissima connessione tra proroga del divieto e Cassa Covid/esonero contributivo, disegnata per limitare la facoltà delle aziende di riorganizzare, e di licenziare in genere, finché abbiano la possibilità di attingere a fondi dello Stato. Il divieto, in altre parole, tradirebbe (nel senso latino del termine) la volontà del Governo di coinvolgere direttamente le aziende nella protezione dell’occupazione, garantendo loro un supporto economico alla limitazione. L’alveo del divieto di licenziamento sarebbe così indipendente dalla scelta di ricorrere alla Cassa o all’Esonero contributivo e opererebbe in ogni caso.

Questa autorevole lettura si confronta con una diversa ed altrettanto prestigiosa tesi, secondo la quale, invece, la proroga del divieto non sarebbe generalizzata e dipenderebbe dalla decisione della singola azienda di ricorrere o meno agli aiuti regolati dal Decreto Rilancio: la rinuncia al sostegno statale, in sintesi, determinerebbe la cessazione del divieto.

In questa prospettiva, la ratio delle norme contenute nel Decreto Rilancio non sarebbe quindi quella di imporre un “baratto” indiscriminato tra strumenti di sostegno finanziati dallo Stato e limitazione alla facoltà di licenziare quand’anche l’azienda rinunci ai primi. È stato evidenziato, infatti, che la disciplina di questi strumenti si esprime in termini di possibilità e non di obbligo, sicché una lettura costituzionalmente orientata dovrebbe condurre alla conclusione secondo la quale l’imprenditore che decida di non ricorrere ad essi non si sottoporrebbe al “patto” con lo Stato per mantenere inalterati i livelli occupazionali.

A prescindere dagli orientamenti appena descritti, come detto entrambi autorevoli e degni di nota, è evidente che il dubbio interpretativo potrà essere sciolto definitivamente solo dopo un pronunciamento della magistratura del lavoro, o forse più pronunciamenti, per comprendere esattamente quale sia il perimetro integrale di questo importantissimo divieto.

Questa constatazione, tuttavia, porta l’articolo 14 del Decreto Rilancio verso un tema a mio avviso di capitale importanza: quello della chiarezza delle norme, che si traduce in efficienza del sistema e ha un impatto economico su tutti noi.

Dobbiamo infatti arrenderci all’evidenza del fatto che gli interpreti e le aziende devono affrontare una disciplina per alcuni versi volutamente oscura, che apre scenari alternativi e non aiuta a comprendere come lo Stato voglia che vengano gestite alcune delicate situazioni: tutto questo causerà paura, impasse e, in ultima analisi, mancanza di un vero rilancio.

Il Governo, infatti, non si è preoccupato di indicare con chiarezza ciò che si può fare e di distinguerlo, con altrettanta semplicità, da ciò che invece non si può fare non accedendo ulteriormente alla Cassa Covid (o all’esonero contributivo). Questo, seppur possa apparire banale, è un problema basilare da risolvere.

Il fatto che sulla estensione del divieto di licenziamento, per quanto detto, autorevoli lavoristi non abbiano identità di vedute, comunque la si voglia vedere, è certamente indice del fatto che le norme dell’articolo 14 non potranno creare certezza. In questo senso è ovvio annotare dunque come il ricorso alla giustizia dovrebbe essere lo strumento per dirimere i conflitti e non per supplire, ex post, a deficienze organiche di norme che sono nate per essere imperfette.

Se questo troppo spesso oramai accade significa che uno degli attori del sistema non ha ricoperto a dovere il proprio ruolo, che è quello di fornire norme che siano anche di facile applicazione (almeno per gli interpreti del diritto), senza demandare deleghe interpretative che lo deresponsabilizzino, lasciando che altri risolvano problemi non adeguatamente regolati.

Questo, è bene precisarlo, non perché il ricorso ai tribunali costituisca il male di un sistema – tutt’altro – ma perché inevitabilmente questa attività comporta tempi, costi e oneri per la collettività (e anche per le imprese) che potrebbero sicuramente essere evitati da norme più intellegibili.

Un recente articolo pubblicato dal quotidiano La Repubblica ha messo in evidenza, a tal proposito, un dato economico che ritengo illuminante: se il nostro sistema di giustizia civile si adeguasse ai tempi del sistema tedesco, l’Italia potrebbe ottenere un aumento di Pil di circa 40 miliardi di euro. È chiaro che regole come quelle che oggi commentiamo non contribuiranno certo ad aiutare il nostro sistema in questo senso.

Questo è un altro dato fondamentale che dovrebbe iniziare ad essere valutato; mi pare fin troppo evidente che non ci può essere rilancio quando le aziende devono decidere di sottoporsi a un vaglio giudiziale per sapere se la scelta di licenziare senza aver fruito della Cassa Covid o dell’esonero contributivo sia stata corretta. E non ci potrà mai essere rilancio davanti all’incertezza, che comporta attesa e non ripartenza.

In quest’ottica pare scontato dire come non saranno necessari particolari poteri divinatori per comprendere che molti imprenditori, a prescindere, preferiranno attendere il 31 dicembre 2020 prima di licenziare; non dimentichiamo infatti che la sanzione per la violazione del divieto dell’articolo 14 sarebbe la reintegrazione del lavoratore licenziato per averlo estromesso in violazione di un divieto di legge.

Quindi, la paura sarà la chiave di lettura vincente dell’articolo 14 del Decreto Rilancio, bloccando sul nascere qualsiasi iniziativa delle aziende che non utilizzino aiuti di Stato; ciò nonostante, ad oggi, nessuno possa affermare con granitica certezza che la scelta di licenziare sia vietata in simili ipotesi.

A ben vedere è sinceramente paradossale che tutto ciò debba avvenire in un simile momento storico e con riferimento a norme che sono contenute all’interno di un Decreto che è stato intitolato usando il sostantivo “Rilancio”

Per questi motivi l’articolo 14 del Decreto Rilancio, a prescindere dalle soluzioni tecniche che sono state proposte e che prevarranno, si presta ad un giudizio complessivamente negativo, così come altri interventi che si sono susseguiti in questi mesi in tema di lavoro.

Le norme, soprattutto quelle in tema di licenziamento, per definizione non sono favorevoli alle aziende: la loro funzione, infatti, è regolare interessi che sono contrapposti anche sulla base dei rapporti di forza tra i soggetti coinvolti.

Una norma non favorevole è però il male minore rispetto a una norma oscura, destinata invece a creare disfunzioni, dispersioni di tempo e di risorse con indubbia ricaduta in costi e perdite, anche economiche.

La certezza delle norme ha un valore strategico e non dovrebbe essere ulteriormente sacrificata. Da essa dipendono la capacità decisionale delle nostre imprese e, perché no, la possibilità del nostro Paese di rilanciarsi anche mediante investimenti stranieri.

Soprattutto perché, è bene ribadirlo, l’articolo 14 proroga un divieto speciale, che da oltre 6 mesi opera in aggiunta a un apparato normativo che norma già esaustivamente la facoltà di recesso del datore di lavoro.

Lo smart working non va in vacanza ma l’emergenza sì: il complesso ritorno dell’accordo individuale

Dal 1° agosto lo smart working uscirà dalla fase emergenziale.

Come è noto, per effetto della decretazione di emergenza, il ricorso allo smart working è stato temporaneamente esonerato dalla necessità di un accordo individuale con il dipendente interessato, prevista dalla L. 81/2017.

Questa applicazione non ordinaria cesserà il prossimo 31 luglio ed entrerà così in vigore una nuova procedura semplificata di comunicazione al Ministero del Lavoro: il datore di lavoro continuerà ad inviare un file contenente i nominativi dei dipendenti interessati; in aggiunta dovrà tuttavia dichiarare di essere in possesso, per ciascuno, dei relativi accordi individuali sull’utilizzo dello smart working da esibire, a richiesta, allo stesso ministero, all’Ispettorato Nazionale del Lavoro (Inl) e Inail.

Questo adempimento aggiuntivo ha già creato, per così dire, qualche mal di pancia, poiché presupporrebbe la convocazione in azienda, entro il 31 luglio 2020, di tutti i lavoratori in regime di smart working per la sottoscrizione degli accordi individuali; una situazione che creerebbe innegabili disagi organizzativi e logistici per chi, peraltro, è tenuto al ferreo rispetto dei protocolli di sicurezza sanitaria. Immaginiamo poi che il ritorno in azienda, seppur per i pochi minuti necessari a tale adempimento, non sarebbe una felice notizia anche per i molti lavoratori che in regime di smart working si trovano già in località di vacanza.

La soluzione più logica sarebbe certamente a portata di mano: consentire che lo scambio del testo dell’accordo e della firma del lavoratore possa avvenire da remoto, via e-mail aziendale (abbinata magari a sistema di autenticazione a doppio fattore per essere certi della paternità della sottoscrizione). Tuttavia, ciò che è più ovvio e banale non sempre è certo e attuabile: ad oggi, nonostante le varie segnalazioni al riguardo, non sembra esserci stato ancora un chiarimento definitivo della questione.

Un dato è comunque evidente: lo smart working sarà una delle hitdi questa estate; lo conferma la convocazione delle parti sociali da parte del Ministro del Lavoro prevista per gli inizi di agosto e che avrà a oggetto un confronto sugli scenari regolamentari dello smart working. Anche gli ultimi dati, del resto, dimostrano che il suo utilizzo massivo durante il lock down ha certamente avviato una tendenza destinata a non esaurirsi, che consoliderà la propria presenza nel mondo aziendale e del diritto del lavoro.

Armiamoci e (ri)partite: incongruenze del decreto rilancio

La legislazione d’emergenza attende il suo ennesimo, e forse ultimo, capitolo: il decreto Rilancio, che dovrebbe consentire alle imprese di allontanarsi velocemente dalla lunga notte del lockdown.

Almeno due norme di ordine lavoristico, contenute nel decreto, mettono tuttavia in forte dubbio questa possibilità, imponendo gravi limitazioni alla libertà di impresa senza creare alcun vantaggio economico e competitivo evidente.

A mio giudizio le perplessità maggiori riguardano l’estensione sino al 17 agosto 2020 del divieto di procedere a licenziamenti individuali per motivo economico e di attivare (o continuare) procedure finalizzate alla riduzione della forza lavoro.

La novità rilevante in questo caso non risiede nel divieto, che già esiste da marzo, quanto nella decisione di estenderlo di altri 90 giorni all’interno di un progetto normativo che dovrebbe essere finalizzato al rilancio dell’attività di impresa.

Il dubbio maggiore riguarda l’ingerenza nella libertà di impresa, ma vi sono perplessità anche sul fatto che il divieto possa produrre reali vantaggi di medio e lungo periodo.

La facoltà di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro per motivo economico rinviene direttamente dalla libertà di iniziativa economica, tutelata dalla Costituzione. Tale libertà si manifesta infatti anche nella facoltà dell’imprenditore di determinare l’assetto ritenuto migliore per la sua impresa, soprattutto nei periodi di andamento economico non favorevole.

È dunque discutibile che il divieto di licenziamenti economici, introdotto in una fase di estrema emergenza, debba continuare a operare anche oggi e in prospettiva nei mesi forse più delicati del “rilancio” della nostra economia.

 La facoltà di recedere per motivo economico dai rapporti di lavoro è del resto già delineata e circoscritta dalle norme limitative dei licenziamenti individuali che assicurano, anche grazie a decenni di giurisprudenza, un corretto bilanciamento dei diritti e degli interessi coinvolti. Introdurre e confermare per decreto un divieto tout court, la cui violazione determinerebbe la nullità radicale dell’atto risolutivo, pare una misura in effetti non commisurata al periodo che rischia di esporre la norma a rilievi di costituzionalità, anche per il fatto di non aver incluso la categoria dei dirigenti, e che certamente non merita di essere inserita in un decreto che viene intitolato “Rilancio”.

Questa misura, del resto, vale a far ricadere sulle imprese tutto il peso, anzitutto economico, della garanzia occupazionale offerta per decreto. Invero il divieto di licenziamento ha un’estensione temporale superiore a quella dei trattamenti di integrazione salariale, che possono essere applicati per un massimo di 14 settimane. Verrà così a crearsi una zona d’ombra, all’interno della quale l’azienda non potrà ricorrere alle misure di sostegno del reddito dei lavoratori e neppure potrà disporre della facoltà di risolvere il rapporto di lavoro che risulterà eccentrico sotto il profilo organizzativo nonché economicamente non giustificabile.

Una domanda dunque sorge spontanea: cosa accadrà terminata la cassa integrazione e dopo cinque mesi di divieto assoluto di licenziamento economico? La risposta è forse intuibile già da oggi, così come pare chiaro che il governo abbia deciso la proroga del divieto di licenziamento, anteponendo le utilità di breve periodo per i lavoratori a valutazioni strutturali e di più ampia prospettiva temporale.

In assoluto, dunque, il decreto non attiva una misura eccellente per il rilancio. 

Alla medesima conclusione si iscrive anche l’art. 90 del Decreto, che assegna ai lavoratori dipendenti, genitori di figlio minore di 14 anni, il diritto di svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile semplificata (anche senza accordo individuale) sino alla cessazione dello stato di emergenza e alla sola condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.

La preoccupazione maggiore che la norma suscita è molto semplice ed è stata già evidenziata da alcuni commentatori: parrebbe infatti che essa rimetta la scelta e la valutazione di ricorrere allo smart working integralmente al lavoratore, relegando il datore in una posizione di secondo piano nella organizzazione delle sue prestazioni lavorative.

Attendiamo ovviamente smentite, ma se una simile lettura fosse confermata il decreto Rilancio avrebbe introdotto una limitazione ancor più profonda e ingiustificabile alle prerogative costituzionali del datore, che solamente lui può esercitare nella organizzazione della propria impresa.

Non è dato sapere per quale motivo, in tale ipotesi, il datore di lavoro dovrebbe prendere atto delle valutazioni discrezionali e di convenienza, effettuate per lui dal lavoratore. Non sarebbe inoltre comprensibile per il datore di lavoro dovrebbe assumere specifiche responsabilità derivanti da scelte che egli non ha neppure concorso a determinare. Anche in questo caso è difficile conciliare il contenuto della norma con il concetto di rilancio e sarebbe auspicabile una revisione letterale.

La legislazione emergenziale ha in buona parte esaurito il proprio compito ed è giunto il momento di ripartire davvero e di farlo anzitutto con riforme, anche strutturali, dei contratti e dei modelli di lavoro. Riforme che meritano di essere approvate nella forma della legge e che tengano conto di tutti gli interessi di volta in volta coinvolti, evitando così di risolvere un problema creandone molti altri.

E se fosse l’azienda a utilizzare l’app per il tracing?

A breve decollerà la c.d. fase 2 e le aziende saranno chiamate al non semplice compito di attuare nuove misure organizzative per fronteggiare il diffondersi del Covid-19 post lockdown.

Dal 4 maggio si aprirà un periodo di media-lunga durata, nel corso del quale le aziende potrebbero cogliere l’opportunità di rispettare le indicazioni governative (e regionali) per ridisegnare spazio fisico, modalità e tempi di lavoro in maniera funzionale alle loro esigenze produttive. Potrebbe essere questa l’occasione per progettare profili di sicurezza su misura e by design, per mutuare un’espressione in voga nel trattamento dei dati personali.

A prescindere da questa mia considerazione, è chiaro che distanziamento sociale e rilevazione della temperatura continueranno a essere ancora per molto tempo requisiti basilari per l’accesso ai luoghi di lavoro; questa seconda fase impone tuttavia di aggiungerne di nuovi, quali, ad esempio, la revisione della disposizione delle postazioni di lavoro degli uffici o, ancora, l’allungamento delle fasce di inizio e fine dell’orario lavorativo (ove possibile) e la creazione di percorsi unidirezionali di ingresso e uscita dall’azienda.

Non è escluso inoltre che le aziende possano implementare l’utilizzo di specifiche app, da installare su smartphone e altri dispositivi aziendali, per il tracciamento degli spostamenti all’interno dei luoghi di lavoro finalizzato a verificare il rispetto del distanziamento tra le persone e del divieto di creare assembramenti.

Si tratterebbe indubbiamente di una misura efficace, che dimostrerebbe peraltro un atteggiamento ancor più rigoroso e proattivo dell’azienda nella tutela della integrità psico-fisica del lavoratore nell’ambiente di lavoro: un dovere che rinviene, ancor prima che dai recenti decreti, dall’art. 2087 del Codice civile.

È certo però che questa scelta imporrebbe alcune riflessioni sul piano giuslavoristico e della privacy, potendo effettivamente determinare sia una potenziale forma di controllo da remoto della prestazione lavorativa, che un trattamento aggiuntivo dei dati (sanitari) dei lavoratori.

Queste riflessioni dipenderebbero, in realtà, dal profilo informatico dell’applicazione adottata dall’azienda: a una maggiore capacità di controllo da parte dell’applicativo dovrebbe infatti seguire una più intensa regolamentazione del suo utilizzo.

Vediamo in quali termini.

In primo luogo, l’app di tracciamento potrebbe essere utilizzata unicamente per la localizzazione degli utenti all’interno dell’azienda e senza alcuna possibilità di identificare alcuno di essi.

A mio avviso in questo caso non sorgerebbero particolari problematiche giuslavoristiche o in ambito privacy.

Sarebbe necessario tuttavia che il software fosse in grado di garantire una perfetta anonimizzazione del dato, impedendo dunque all’amministratore (azienda detentrice della licenza o società titolare dell’app) di ricostruire l’identità dei singoli utenti rilevati, neppure mediante l’associazione del numero seriale del singolo dispositivo alla persona cui è affidato. In questo caso, infatti, l’applicativo limiterebbe le proprie funzionalità alla mera segnalazione delle violazioni del distanziamento di sicurezza tra gli utenti e del crearsi di assembramenti, nessun lavoratore verrebbe tuttavia identificato.

L’app di tracciamento potrebbe tuttavia avere un profilo informatico diverso e rendere possibile un grado maggiore di controllo, consistente nella localizzazione degli utenti all’interno dei locali aziendali e nella associazione di ciascuno di essi a uno specifico lavoratore.

In questo caso, rilevato un caso di positività, l’azienda sarebbe in grado di ricostruire gli ultimi movimenti in azienda del lavoratore contagiato e determinare la c.d. catena di contatto, assumendo le necessarie determinazioni.

L’identificazione del singolo potrebbe essere palese, ovvero essere realizzata mediante informazioni pseudonimizzate, ossia dati resi anonimi e tuttavia correlabili in un secondo momento a informazioni aggiuntive, conservate in banche dati separate, in modo da identificare un singolo individuo.

Certamente si tratterebbe di una profilazione efficiente, che meriterebbe tuttavia necessarie protezioni legali, in entrambi gli ambiti che sto considerando.

È evidente che in tale ipotesi l’app di tracciamento determinerebbe un vero e proprio trattamento di dati personali (per di più sanitari) e imporrebbe dunque una specifica informativa, con la quale indicare al lavoratore i limiti, anche temporali, di utilizzo e conservazione dei dati rilevati.

Questo trattamento dovrebbe essere adeguatamente progettato e l’azienda dovrebbe dotarsi di idonee procedure e supporti documentali, costituendo un vero e proprio trattamento aggiuntivo di dati personali, gestiti dall’azienda in esecuzione del contratto di lavoro.

A mio avviso tale ulteriore utilizzo dei dati dovrebbe essere limitato alle operazioni strettamente necessarie a garantire la sicurezza dei colleghi del soggetto rilevato positivo ed entrati nella sua catena di contatto, e a raggiungere lo scopo della tutela della salute. Dovrebbe dunque essere garantita l’esclusione di qualsiasi operazione non strettamente necessaria a raggiungere questo scopo; ciò anche con riferimento al tempo di conservazione dei dati, limitato allo strettamente necessario.

Sotto il profilo giuslavoristico, invece, una simile interazione di informazioni personali determinerebbe la possibilità del controllo a distanza della prestazione e richiederebbe, dunque, l’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, vincolando l’azienda alla procedura di intesa sindacale o autorizzazione amministrativa. L’azienda dovrebbe illustrare alla parte sindacale, o all’ispettorato, il funzionamento dell’applicazione, fornendo anche ogni documentazione utile a dimostrarne il funzionamento sotto il profilo informatico.

Una riflessione conclusiva: l’adozione dell’app di tracciamento potrebbe determinare per le aziende interessate un ulteriore adempimento che mal potrebbe conciliarsi con il particolare momento. Anche sotto questo profilo le aziende avrebbero necessità di procedere in tempi rapidi con soluzioni di immediato impatto, alleggerite da qualsiasi peso burocratico.

È altrettanto innegabile per quanto detto che l’adozione di app di tracciamento potrebbe incidere su diritti e situazioni rilevanti e meritevoli di tutela.

Credo sia indispensabile che argomenti come questi vengano considerati in uno dei molti tavoli oggi impegnati nella progettazione della fase 2, per consentire alle aziende e ai lavoratori di ripartire in piena sicurezza.

Eliminare ogni certezza in due righe. Un breve commento all’art. 1 co. 2 lett. l) del Decreto Liquidità

Il recente Decreto Liquidità ha aperto la possibilità per le nostre imprese di accedere al credito garantito dallo Stato, mediante SACE, società di servizi finanziari del Gruppo CDP.

Il testo contiene tuttavia un passaggio che potrebbe complicare notevolmente questo scenario e avere un rilevante impatto sull’intero processo.

L’art. 1, co. 2 del Decreto lettera l), infatti subordina la garanzia dello Stato a una particolare condizione di natura lavoristica: “l’impresa che beneficia della garanzia assume l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali”.

A mio avviso la formulazione estremamente generica di questa norma è destinata a creare non pochi problemi interpretativi e applicativi di ambito lavoristico, realizzando così più ostacoli di quanti intenda risolverne.

I motivi sono diversi. In primo luogo, non è stato chiarito quando, o secondo quali modalità, l’impresa interessata al credito garantito debba assumere l’impegno a gestire i livelli occupazionali. Allo stato attuale non è possibile escludere nulla, neppure che l’impegno venga assunto contestualmente alla richiesta di finanziamento garantito o, addirittura, in un momento successivo.

La norma, peraltro, neppure indica entro quanto tempo dall’impegno (o dalla richiesta di finanziamento garantito) l’azienda debba formalizzare l’accordo sindacale, così lasciando aperta la possibilità che ciò avvenga anche a distanza di tempo dall’impegno formale. Non è necessario dilungarsi molto per spiegare che già sotto questo profilo il Decreto si presta quantomeno a interpretazioni malevole e comportamenti elusivi.

Il Decreto, o meglio l’Esecutivo, non si è preoccupato neppure di individuare la durata dell’impegno a gestire i livelli occupazionali. Logica imporrebbe di considerare la durata di tale impegno perequata alla durata del finanziamento. A mio parere ciò determinerebbe tuttavia un problema di non poco conto, poiché si tradurrebbe certamente in una limitazione della libertà di iniziativa economica, che verrebbe peraltro estesa per un periodo di tempo lungo e più ampio della fase emergenziale nella quale è stato emanato il Decreto Liquidità.

Esiste, peraltro, un notevole dubbio interpretativo di fondo. Non è chiaro infatti quale sia l’oggetto degli accordi sindacali al cui raggiungimento le imprese interessate al credito garantito debbano impegnarsi. L’espressione utilizzata dal Decreto – gestire i livelli occupazionali – è tra le più aperte e generiche che potessero essere utilizzate, rendendo difficoltoso comprendere a cosa la norma intenda riferirsi e cosa, invece, ne sia escluso.

Gestire i livelli occupazionali è infatti un’espressione che in ambito lavoristico può riportare alle attività più disparate ricomprendendo i licenziamenti, collettivi e individuali, senza escludere però qualsiasi altra attività che produca ugualmente una gestione dei livelli occupazionali senza far ricorso alla risoluzione dei rapporti di lavoro.

Certo, l’inclusione dei licenziamenti individuali, in questo periodo già ulteriormente limitati dall’art. 46 del Decreto Cura Italia, renderebbe la portata della norma ancor più invasiva e il Decreto ancor più criticabile per le indubbie limitazioni della libertà di iniziativa economica che verrebbero a crearsi.

Un’ultima annotazione: il Decreto non indica le conseguenze ipotizzabili per i licenziamenti disposti dall’azienda in violazione dell’impegno a gestire i livelli occupazionali. Sarebbero nulli per violazioni di legge o “semplicemente” inefficaci? Anche sotto questo aspetto le soluzioni più diverse, al momento, sono tutte ipotizzabili.

Sicuramente diversi aspetti mettono in forte di dubbio l’efficacia della norma che ho commentato. Il Decreto Liquidità contiene al proprio interno un vero e proprio fattore di moltiplicazione delle questioni di ambito lavoristico senza fornirne tuttavia una soluzione.

La norma sarà certamente oggetto di un ampio dibattito, soprattutto in sede contenziosa, e lascerà moltissimo spazio a interpretazioni giudiziali che, giocoforza, la riempiranno di contenuto in maniera non sempre uniforme.

Allo stato, la norma contribuisce alla soluzione del problema della liquidità delle aziende, non senza costringerle, però, a prepararsi a doverne affrontare altri su un diverso tavolo.

Una profonda revisione in sede parlamentare è certamente auspicabile.

L’eterno conflitto tra privacy individuale e sicurezza collettiva: culture e approcci differenti al tempo del Covid-19

Il Covid-19 ha riportato alla ribalta il rapporto tra privacy individuale e sicurezza collettiva, rievocando su scala decuplicata le settimane che seguirono l’11 settembre 2001.

Come allora gli Stati sono determinati ad adottare ogni provvedimento utile alla salute (e alla sicurezza) dei loro cittadini, consapevoli che l’obiettivo potrebbe richiedere, in parte, il sacrificio di alcune facoltà individuali, anche relative alla riservatezza.

L’esperienza, del resto, insegna che le situazioni di pericolo creano la ricerca di sicurezza, rendendo accettabile che il raggiungimento dell’obiettivo possa implicare la cessione di quote di libertà.

La questione centrale di cui vorrei occuparmi è tuttavia un’altra: comprendere in quali misure ciò è accaduto in queste settimane, non solo in Italia ovviamente.

La lotta al Covid-19, vista dal profilo che qui analizzo, ha sviluppato due sistemi di contrasto al contagio.

Il nostro Paese e la maggior parte degli Stati hanno adottato, sino ad ora, un approccio basato sull’isolamento fisico delle aree di focolaio e sul trattamento dei dati sanitari nella misura indispensabile a garantire l’attuazione dei provvedimenti di salute pubblica. Il Trattamento è stato effettuato principalmente dagli organi del Ministero della salute e, da qualche giorno, anche dalle aziende nell’ambito delle misure di contrasto alla diffusione del virus negli ambienti di lavoro.

Vi è poi il sistema di difesa adottato dalla Corea del Sud (e con profili diversi da Israele)[1], basato sulla limitazione dei lockdown, sostituiti da un sistema di sorveglianza digitale, in grado di individuare i contagiati, ricostruire le loro catene di contatto e sorvegliare l’attuazione della quarantena.

Sul campo quest’ultimo metodo ha dimostrato una indiscutibile superiorità. La Corea è stata tra le prime nazioni a registrare focolai di Covid-19 nel mondo, eppure al 20 Marzo conta 8.652 contagiati, laddove nel nostro Paese, purtroppo, le persone infette sono 41.035. Il dato che rende ancor più schiacciante il confronto è quello legato ai decessi: 94 persone morte in Corea contro 3405 in Italia.

La medaglia di questo successo ha però anche un’altra faccia: il prezzo che tutto ciò ha comportato in termini di compressione dei diritti (e della riservatezza).

Lo Stato coreano ha utilizzato un sistema di cliniche mobili, installate lungo le strade, che hanno lavorato con la stessa logica del box dei team di Formula 1 durante i pit stop: lunghe code di persone hanno transitato davanti ai sanitari per ricevere la somministrazione del test. In alcuni casi è stato possibile eseguire l’operazione anche restando in macchina. In 7 settimane sono stati eseguiti all’incirca 300 mila tamponi.

Nel frattempo, i team investigativi del governo sono stati incaricati di creare una traccia digitale di ciascuna persona analizzata, all’interno della quale far confluire e interconnettere dati personali, dati sanitari, utenze telefoniche, account digitali, dati Gps, immagini di video sorveglianza, movimenti di spesa mediante app e carte di credito.

Queste tracce, attraverso un sistema efficiente di big data analysis, hanno consentito di ricostruire a ritroso la catena dei contatti degli infetti, individuare nuovi soggetti da analizzare e verificare che le persone si adeguassero alle prescrizioni che il sistema aveva loro inviato sullo smartphone a seguito del tampone.

Il metodo utilizzato in Corea è stato certamente efficacia, ma certamente è poco compatibile con la nostra cultura giuridica e la nostra stessa concezione di democrazia.

Visto sotto il profilo della tutela della riservatezza, il nostro approccio al contagio è figlio di una diversa sensibilità sul tema che si è sviluppata in Italia e in Europa. L’esempio coreano rappresenterebbe per noi l’azzeramento e la negazione delle norme che regolano la privacy e del sistema di principi costruito intorno a essa.

È certo, per quanto già detto, che in condizioni di eccezionale pericolo possa rendersi necessario derogare a qualche facoltà individuale. Anche in queste ipotesi è condizione imprescindibile che si tratti di una deroga temporanea e circoscritta alla libertà di ciascuno di noi di sottrarre ambiti della propria vita privata al controllo statale, quando tale controllo non risulti indispensabile.

In Sud Corea il trattamento dei dati ha certamente avuto un risultato eccezionale nella lotta alla diffusione del contagio ma ha determinato un’invasione capillare in molti aspetti della vita dei singoli. Aspetti che sarebbe stato preferibile non condividere con il Governo. Inoltre, non ci sono conferme del destino che questa enorme massa di dati potrà avere nel prossimo futuro, e in particolare se verrà cancellata finita l’emergenza o se sarà utilizzata ancora e magari per ulteriori scopi[2].

Questi esempi ci insegnano in ogni caso che i principi di trasparenza, di proporzionalità, di temporaneità e di coerenza del trattamento dei dati personali non sono dei semplici totem, ma costituiscono validi misuratori della liceità del trattamento, anche quando è lo Stato il titolare di questa attività.

Anche nei casi eccezionali questi principi non dovrebbero infatti essere mai derogati e ritengo che tali limitazioni non sarebbero in grado di sopravvivere nella cultura della tutela dei dati personali che si è sviluppata in Europa e in Italia in tutti questi anni.

Bilanciare la salute pubblica e la riservatezza non è certamente un compito agevole. Credo però che il nostro Paese lo stia svolgendo con attenzione in questo momento difficile, anche quando si tratti di regolare i trattamenti tra privati.

A tal proposito credo che meriti una menzione il “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” adottato dal Governo e Parti Sociali il 14 marzo scorso.

Il Protocollo prevede che l’azienda debba accertare la temperatura corporea degli addetti, prima del loro ingresso all’interno dei luoghi di lavoro.

Ciò, tuttavia, senza alcuna facoltà – ritengo – per il datore di lavoro, che è titolare del trattamento del dato sanitario rilevato, di conservare queste informazioni se non per comprovare l’isolamento temporaneo della persona e la richiesta di intervento sanitario. Dunque, il dato della temperatura corporea, se inferiore ai 37.5°, deve essere istantaneo e non memorizzato.

Le aziende devono in ogni caso fornire ai propri addetti una adeguata informativa (anche orale) su questo ulteriore trattamento dei dati sanitari, esplicitando che il medesimo è finalizzato all’adozione delle misure di contenimento del Covid-19 e di fatto attuando, anche in relazione a questo particolare tipo di trattamento dei dati personali, sempre e comunque i principi di trasparenza, proporzionalità, temporaneità e coerenza.

Il trattamento dei dati personali dei lavoratori, anche nelle situazioni di emergenza, merita sempre una attenta riflessione sulle modalità da adottare e le conseguenze che ne derivano, poco prestandosi a improvvisazioni o a scelte drastiche.


[1] Esisterebbe, in realtà, anche il metodo utilizzato dalla Cina, che ha manifestato però tratti autoritaristici, che non permettono neppure di richiamare il concetto di privacy.

[2] Non vogliamo cadere nel tranello di una teoria del complotto, ma solamente mettere in luce un possibile rischio.

Smart Working, la soluzione che può contenere un nuovo problema

Il Covid-19 ha messo in luce l’utilità del lavoro agile, sino a qualche tempo fa ritenuto dai più un oggetto misterioso, utilizzato da manager, neomamme e freelance.

Lo smart working ha dimostrato in queste settimane di essere una valida opzione per il contenimento del contagio nonché per il mantenimento delle nostre attività lavorative e il termine è subito diventato un trend topicdi post, articoli e pubblicazioni specialistiche. Anche il Governo ha preso coscienza della utilità di questa forma di esecuzione della prestazione lavorativa, dando vita, in fase emergenziale, a condizioni di accesso più semplici alla medesima.

Il lavoro agile si è così diffuso a macchia d’olio e sta portando evidenti vantaggi alla salute dei lavoratori e alla continuità delle attività aziendali.

Attenzione però a non cadere in facili semplificazioni, dettate dalla fretta di risolvere un problema imminente. Mi riferisco, tra gli altri, a un particolare aspetto, che riguarda la tutela dei dati aziendali e personali.

Il lavoro agile, infatti, comporta che lo svolgimento di una vasta gamma di attività aziendali avvenga, ovviamente, al di fuori dei luoghi di lavoro e della infrastruttura informatica aziendale. Ciò non pone, di regola, particolari problemi: nella maggior parte delle ipotesi infatti la dislocazione della prestazione lavorativa viene realizzata mediante dispositivi aziendali, perfettamente integrati, anche sotto il profilo della sicurezza, nella rete aziendale.

In queste settimane di grande emergenza sta accadendo tuttavia che diversi smart worker abbiano iniziato a lavorare da casa utilizzando pc, tablet e smartphone personali.

È necessario quindi, a mio avviso, fare qualche riflessione sul tema del lavoro agile e della tutela dei dati aziendali, e personali di conseguenza.

La versione originaria del lavoro agile prevedeva che lo stesso fosse eseguito mediante dispositivi aziendali, che consentivano margini di garanzia circa il fatto che tutte le attività svolte da remoto rispondessero ai criteri di sicurezza ed integrità dei dati (aziendali e personali) già individuati dall’azienda. Il datore di lavoro dello smart worker è infatti anche il titolare del trattamento dei dati affidati all’azienda.

Per questo motivo quanto accade oggi, a mio avviso, potrebbe esporre i dati aziendali a maggiori possibilità di attacco. Ipotizzo infatti che lo smart worker privo di dispositivi aziendali impieghi i propri strumenti elettronici sia nell’attività lavorativa, che nella vita privata. Per questo motivo, i dati aziendali potrebbero essere esposti a maggiori rischi, provenienti, ad esempio, dalle vulnerabilità delle reti domestiche e dei device stessi o da comportamenti incauti, seppur involontari, dei lavoratori.

Infatti, l’adozione dello smart working non richiede particolari competenze tecnico-informatiche del lavoratore il quale potrebbe inconsapevolmente esporre (o aver già esposto) il proprio dispositivoa rischi in grado di coinvolgere i dati aziendali trattati nelle sessioni di lavoro agile.

Un esempio: statisticamente i dispositivi (non aziendali) potrebbero non essere aggiornati con le ultime patch di sicurezza o essere protetti solo da software reperiti gratuitamente sul web, non sempre in grado, dunque, di garantire gli standard di sicurezza richiesti all’interno di un ambiente informatico aziendale. Ancora: trattandosi di strumenti (smartphone, tablet, pc) utilizzati anche nella vita privata, non è da escludersi che alcune applicazioni di terze parti precedentemente installate non siano potenzialmente in grado di realizzare (o far realizzare da remoto) comportamenti malevoli sui dati aziendali affidati al lavoratore. Ciò senza scendere nel particolare delle vulnerabilità delle reti domestiche.

Certamente le infrastrutture aziendali sono disegnate e gestite per impedire che simili criticità possano ricadere sui serveraziendali; l’attenzione a mio parere dovrebbe essere portata anche ai singoli dispositivi personali degli smart worker e alle conseguenze che il loro coinvolgimento in atti malevoli potrebbe determinare sull’integrità di dati aziendali.

Perché preoccuparsi di questo ulteriore problema?

La risposta è semplice: il datore di lavoro è anche il titolare del trattamento dei dati aziendali. Compete a lui, dunque, adottare ogni misura utile secondo la tecnica per impedire, tra gli altri, la perdita (anche accidentale), il furto, il danneggiamento o l’accesso abusivo ai dati aziendali (il c.d. data breach), che potrebbe esporre l’azienda a sanzioni anche molto serie (le più importanti delle quali sono previste dal Regolamento europeo 679/2016 sulla protezione dei dati personali, o GDPR). Questa cautela vale a maggior ragione nelle ipotesi in cui l’azienda richieda o accetti che lo smart worker utilizzi strumenti informatici propri. Una decisione che aumenta il fattore di rischio per i dati aziendali e impone di creare, di conseguenza, le migliori condizioni di sicurezza possibili, soprattutto nel caso si tratti di dati personali.

È dunque necessario soppesare la richiesta dello smartworker di usare propri dispositivi, tenendo in debita considerazione oi profili della tutela della infrastruttura informatica e dei dati aziendali.

Che fare dunque?

Il primo passo utile potrebbe essere la revisione delle policy aziendali in tema di sicurezza informatica, integrità dei dati, trattamento dei dati personali e gestione dei dispositivi. Questo intervento aiuterà infatti a capire se la normativa aziendale in vigore è adeguata alla evoluzione e alla diffusione in azienda in queste settimane dello smart working, introducendo, se necessari, alcuni correttivi o integrazioni.

A mio parere non sarebbe indifferente, inoltre, avviare sessioni di formazione pratica, anche on line, per fornire agli smart worker novelli le informazioni utili sulla gestione della sicurezza dei dispositivi, sui comportamenti da tenere e su quelli, ovviamente, da evitare. È utile, oltre che necessario, fornire al lavoratore agile le coordinate per un uso consapevole dei dati al di fuori della struttura informatica aziendale, dotandolo, nel caso, di software di sicurezza e richiedendo l’utilizzo di piattaforme MDM (Mobile Device Management) la gestione e l’amministrazione da remoto dei dispositivi mobili.

L’utilizzo dei dispositivi privati, del resto apre anche un ulteriore problema, la possibilità, anche solo astratta, che si crei una interazione tra il sistema informatico aziendale e dati personali del lavoratore, contenuti nello strumento utilizzato in regime di lavoro agile.

Anche questo è un tema su cui torneremo con qualche approfondimento.